Deize Tigrona: funk carioca e resistenza di

di 7 Febbraio 2020

Sotto la label dissidente brasiliana Batekoo, e accompagnata dai DJ Fresh Prince da Bahia e Glau Tavares, Deize Tigrona – dopo un tour di otto paesi e al suo secondo tour europeo a distanza di dieci anni – è tornata in Brasile per gli WME Awards, le prime premiazioni interamente dedicate alle donne della musica brasiliana. Originaria della Ciudad de Dios, a Río de Janeiro, Tigrona è stata la prima donna della scena funk carioca a diventare famosa a livello internazionale. Il suo lavoro e la sua presenza in un ambiente di netta prevalenza maschile hanno spianato la strada ad altrettante artiste, ed elevato l’esperienza di intere generazioni di ragazze. I suoi testi, abbinati a beat forti, duri, parlano apertamente di sessualità, emancipazione e piacere.
Il funk carioca non è solo un genere musicale, ma un fenomeno storico e culturale. Oggi lo vediamo diffuso ovunque: risuona su soundsystem, dancefloor e nei club di tutta l’America Latina, e del mondo. Se moltitudini di corpi, da nord a sud del pianeta, godono nel sudare al suo ritmo, è perché la sua storia ha origini lontane, ed è più viva che mai. Il 2019 in Brasile chiude il primo anno del governo Bolsonaro, nel quale la criminalizzazione del funk e delle culture periferiche sono il risultato di politiche pubbliche apertamente fasciste. L’incarcerazione del DJ di funk carioca Rennan da Penha, e il massacro di Paraisópolis, in cui nove giovani hanno perso la vita lo scorso dicembre, in un Baile Funk [festa di funk carioca, ndr] a San Paulo per opera della polizia e dei militari, consolidano gli stereotipi che stigmatizzano gli abitanti della favela come criminali e pericolosi. Stereotipi sorti secondo un progetto di stato-nazione alle cui fondamenta sta un razzismo strutturale dalla storia secolare, che cerca e ottiene complici attraverso l’ascesa delle recenti ondate reazionarie e di estrema destra, su scala mondiale.
La conversazione che segue fra Jenny Granado e l’MC Deize Tigrona ripercorre la sua traiettoria artistica, l’attuale contesto sociale nella sua comunità, e la cultura funkeira elettronica, nata dall’incontro tra arte e resistenza nelle comunità di Rio.

Jenny Granado: Come sei diventata la MC del funk carioca?
Deize Tigrona: Scrivevo hip-hop, rap, ma non ho più proseguito. Ai tempi stavo componendo i miei primi pezzi, dei montagens¹, di cui uno intitolato Hilda Furacão. Un DJ che abitava accanto a me mi disse che avrebbe registrato nuovi artisti, così registrammo quel pezzo ed è stato lì che sono diventata “Deize Tigrona”.

JG: Dov’è successo?
DT: Eravamo nella Matinê do Coroado, a Ciudad de Dios, Rio de Janeiro. Era la fine del 1997. Fu l’inizio di un’era in cui ho ottenuto una fama che non avrei mai pensato sarebbe arrivata. Ho iniziato a calcare i palchi solo alla fine del 1999: fino ad allora non avevo mai cantato dal vivo, era il DJ a suonare i miei pezzi. Di lì a poco è venuto da me un bonde² di ragazze. Le mie canzoni le facevano sentire rappresentate, dentro e fuori il mondo del funk. Così abbiamo iniziato a partecipare alle battaglie di versi, i debate, in cui ci sfidavamo a vicenda. Col tempo sono nate sempre più bondes di ragazze, MC e altri gruppi.

JG: I tuoi testi parlano spesso di putaria³, da dove viene questo tuo interesse?
DT: L’interesse per la putaria è arrivato con l’avvicinamento delle ragazze di cui sopra; io cantavo, queste ultime pensavano mi rivolgessi a loro, e mi rispondevano, quasi fossimo in competizione. La cosa è diventata contagiosa, le ragazze si esaltavano perché si trattava – e si tratta tuttora – di resistenza. Era un’affermazione di libertà per tutte noi, ed è per questo che oggi le feste sono come le vediamo.

JG: Anche la tua famiglia è Ciudad de Dios?
DT: No, anche se io ci abito da quando sono nata. Ciudad de Dios è relativamente nuova e nasce da processi di gentrificazione e rimozione di una comunità che si trovava nella zona a Sud di Rio. Si chiamava Macedo Sobrino, e si trovava nella Praia do Pinto, tra la regione Lagoa e Gávea, o perlomeno è così che ho sempre sentito raccontare la storia. Per fare spazio alle abitazioni delle elite sociali hanno dislocato gli abitanti di quelle aree verso il quartiere Jacarepaguá, dove oggi sorge Ciudad De Dios.

JG: Com’è la situazione là, oggi?
DT: È orribile. Siamo in guerra.

JG: Come descriveresti una favela?
DT: Una favela per le elite e per lo Stato è un errore del sistema, qualcosa che non dovrebbe esistere, mentre per me è la mia culla, il luogo dove l’uno accoglie l’altro e ci si aiuta. Dove se non ho zucchero, me ne regalano un bicchiere. È il posto dove produciamo la nostra arte, la nostra cultura che arriva nel resto del mondo. La favela ha il suo prestigio. La sua potenzialità che consiste nell’arrivare a tantissime persone, è un disturbo per lo Stato e il governo. Non vogliono che la favela fiorisca; la trattano come se non la abitassimo, come se non avessimo diritto di voto . Per quanto riguarda l’elezione di Bolsonaro pare che la maggioranza delle persone che l’hanno votato proviene dalla favela, ma io non ci credo. Preferirei non crederci. Ci sono elicotteri pronti a spararci in ogni istante, la polizia pronta a mitragliare le nostre case.

Ritratto di Deize Tigrona. Fotografia di Vicky Grout.

JG: Come state reagendo a tutto questo?
DT: Cerchiamo di interrogare i più anziani della comunità, per capire cosa ha portato la nostra Ciudad de Dios a essere dipinta come nell’omonimo film di Fernando Meirelles, considerando che oggi le è rimasta quell’immagine stereotipata, di luogo di sparatorie e guerra. Non è sempre stata così, ma lo è diventata nel tempo, per colpa dei governi: gli abitanti più anziani dicono che il reale Zé Pequeno , non era uguale a quello del film. Si è venuto a creare uno stigma. Mi ricordo che quando lavoravo come domestica in casa di una ragazza, lei, dopo aver visto il film, mi ha chiesto ridendo: “Deize, come fai a vivere là?” Allora abbiamo iniziato a riunire i bambini in un progetto chiamato “SOS Ciudad de Dios”, in cui raccogliamo alimenti e cibo per aiutare i ragazzi più in difficoltà. C’è una zona chiamata Brejo, da qualche tempo interamente militarizzata, e piena di caveirão della polizia che la pattuglia giorno e notte e, all’occorrenza, spara a vista. Fino a qualche tempo fa non avrei mai pensato che un giorno me ne sarei voluta andare, ma ora è necessario. I miei figli, né tutti i ragazzi giovani che vogliono studiare meritano di vivere tutto questo. In questo senso è una grande fortuna avere Internet: è lì che tanti bambini cercano di studiare, ma rimane una situazione molto triste. L’istruzione è garantita dallo Stato, ma in questa situazione di guerriglia sono obbligate a chiudere e ciò non fa altro che alimentare lo stigma verso chi non ha studiato, che poi si riversa nel razzismo verso i neri, visti come arretrati, ignoranti.

JG: Cosa c’è in una favela che non c’è altrove?
DT: Credo che l’arte e le iniziative di aiuto comunitario siano fenomeni introvabile al di fuori della favela. Abbiamo quel carisma, quell’amore, quel conforto, quella voglia di chiacchierare per strada, al bar, quella voglia di giocare a calcio tutti insieme. C’è unione, c’è comunità.

JG: Cosa ti aspetti da questo secondo tour in Europa?
DT: Voglio che venga riconosciuta alla mia gente la visibilità che merita. Voglio che il mondo si renda conto che nella nostra comunità c’è gente con potenziali altissimi. Sto portando con me la cultura della favela, oggi appropriata e consumata dal capitalismo. Per questo la mia presenza qui è preziosa: dà la possibilità a tutti loro di comprendere che nelle favelas, nelle nostre comunità, esistono persone buone, creative, speciali.

JG: Come ti rapporti con la questione intergenerazionale?
DT: La trovo incredibile. Un anno fa una persona mi disse che la sua generazione non mi conosceva. Allora ho iniziato a chiedere a persone più giovani di me, e tante mi risposero che non era vero, che mi conoscevano. Per un periodo ho creduto che non avrei ripreso a fare musica, ma intanto ho continuato a comporre e scrivere. Ho più di vent’anni di carriera nel funk, e solo nel 2019 sono riuscita a tornare in Europa . Sono passate due decadi, e per me è davvero sorprendente, ma nulla di tutto questo mi ha cambiata.

JG: Hai un desiderio e un messaggio da lasciare?
DT: Il desiderio, in questo momento, è andarmene da Ciudad de Dios. Per quanto riguarda il messaggio, mi piacerebbe che il funk sia rispettato. Ci sono molte persone che hanno iniziato cantando funk, per poi spostarsi al pop. Si dimenticano che MC significa Maestro di Cerimonia . Certo, anche il DJ è un maestro, ma l’MC ha in mano un microfono, e quindi è portatore di messaggi. Vorrei che si rispettasse la cultura funk, in resistenza da più di trent’anni sul nostro territorio. Io non sono stata la prima, né sarò l’ultima: quando ho iniziato a cantare esistevano già due gruppi, i Cidinho e Doca, Claudinho e Buchecha. Vorrei solo che si rispettasse questa storia. Il beat del funk cambia nel tempo, ma le parole restano le stesse.

JG: Senti che manca qualcosa?
DT: Sono felice di essere qui, sono molto orgogliosa di me. Mi accarezzo molto, e mi ringrazio spesso. [Ride]. Cerco di restare salda per continuare a fare quello che faccio.

Jenny Granado è performer, ricercatrice e fondatrice della piattaforma Desculonización. Vive e lavora tra Città del Messico, Europa e Brasile.

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